Intervista Francesco Silleni

Francesco_SilleniGestione del Fondo di Investimento di Diritto Italiano “Sviluppo Impresa” Consulenza di gestione del Portafoglio di partecipazioni dirette delle Società del Gruppo UBI in aziende e in altri strumenti di investimento di PE. Membro del CdA Pellegrini S.p.A., membro del CdA della Pama S.p.A., ex membro del CdA e del Comitato di Controllo Interno di Bouty Healthcare SpA (quotata alla Borsa di Milano); ex Presidente della Radici Film S.p.A.; former member del Supervisory Board della Medinvest S.A. (Lux); ex membro del CdA di Holdisa SpA (Controllante di ISAGRO S.p.A., quotata alla Borsa di Milano). Principali investimenti oltre a quell già citati: Humanitas, Prototipo, Gatto Astucci Group, OMFB, SDN.

Come emerso anche dai dati presentati durante l'assemblea dei soci Aifi, si è assistito ad una ulteriore contrazione degli investimenti nel corso del secondo semestre 2009. Come esce il Private Equity da questa crisi, cosa è cambiato?

Il Private Equity ha sofferto di questa crisi per diversi motivi. In primis non essendoci più leva finanziaria è stata ridotta la capacità di investimenti in nuove aziende, inoltre moltissimi finanziatori diretti non stanno rientrando dai fondi che hanno sottoscritto. A fronte di queste difficoltà oggettive agli operatori sono richieste delle capacità tecniche molto superiori rispetto ai tempi pre-crisi e sono sottoposti anche a verifiche più severe. L’analisi sul settore evidenzia come si sia determinata una doppia chiusura delle fonti di alimentazione del settore: il debito bancario ridotto e i sottoscrittori di fondi impossibilitati a effettuare nuovi investimenti.

Un’altra delle problematiche a cui i fondi devono far fronte è la presenza di investimenti in “pancia” senza possibilità di avere nel breve una way out. Pertanto si assisterà ad un allungamento delle exit strategy rispetto a quelle pianificate a inizio investimento…

Assolutamente. Le way out si stanno allungando moltissimo, però la problematica principale è dovuta al fatto che le aziende oggetto di investimento non hanno avuto lo sviluppo che ci si aspettava. In alcuni casi perchè c'era stata una pianificazione eccessivamente rosea, in altri casi perchè purtroppo, aziende anche molto solide, con la crisi del 2008-2009 hanno avuto un assottigliamento dei fatturati, della redditività, quindi del valore. Dall'altro lato non essendoci più un vivace mercato dei compratori c'e stato anche un assottigliamento del multiplo sul quale venivano acquistate.

Secondo lei è possibile parlare anche di una maggiore settorializzazione dei fondi a fronte del percorso di reazione alla crisi?

Non la vedo così diretta anche se è auspicabile, perchè ormai ciascun settore industriale richiede delle competenze specifiche. I fondi generalisti potranno continuare ad esistere purchè abbiano una ampia diversificazione dei settori e le competenze necessarie. La settorializzazione offre delle altre problematiche: scegliere di correre un rischio specifico in quel settore da parte dei sottoscrittori.

All'interno di alcune ricerche fatte per esempio da Goldman & Sachs negli ultimi tempi, è stato delineato come le nuove economie Brics possano fare accelerare la ripresa. Ci si spinge addirittura a ipotizzare che i paesi occidentali possano usarle come traino nella ripresa. Secondo lei è possibile? C'è la possibilità di concludere qualche operazione cross-border?

Le operazioni cross-border sono di una difficoltà straordinaria per il fatto che l’Italia non è preparata, si sta affacciando solo ora su questo terreno. Inoltre essendo il tessuto industriale italiano costituito soprattutto da aziende medio piccole, è oggettivamente più complesso gestire interazioni con culture lontane. Per il momento le operazioni cross border sono sporadiche.

E’ più prevedibile il contrario ossia che siano le aziende cinesi e indiane a investire in Italia?

Sta accadendo in maniera massiccia, ma non ce ne rendiamo conto, perchè c'è una discreta carenza dei soggetti che monitorano il mercato che rilevano queste cose. Se ci prendessimo la briga di andare a vedere acquisizioni da parte di aziende cinesi, indiane negli ultimi due anni, scopriremmo che in Europa ce ne sono state un'elevata quantità, in particolare le acquisizioni hanno riguardato aziende europee grandi, perchè evidentemente gli indiani e i cinesi quando si muovono, lo fanno per un vantaggio e le aziende italiane sono troppo piccole. Questa realtà da un lato è un vantaggio e una difesa, ma dall'altro diminuisce il numero dei potenziali soggetti interessati. Quello che come investitori osserviamo con tristezza è un declino dell’Europa: i clienti europei comprano meno che nel 2009, mentre vendiamo di più a Cina, Brasile e India. Quindi qualche azienda ben posizionata su questi mercati si lascia trainare dalla ripresa ma contemporaneamente il grosso delle imprese europee soffre la perdita di quote di mercato a vantaggio dei Brics.

Se da un lato ci sono economie emergenti, e dall’altro ci sono le economie tradizionali, quale sarà il ruolo del vecchio continente all'interno dell'economia globale?

La risposta purtroppo è troppo semplice e non si ha neppure la sensazione che ci sia una reazione corretta. Questi paesi emergenti quale vantaggio competitivo giocano nei confronti della vecchia Europa? Hanno minore costo del lavoro. La soluzione da opporre a dover controbattere un soggetto che gioca con un vantaggio competitivo che non si può compensare direttamente, è sfruttare un altro vantaggio non facilmente replicabile: investire sul vantaggio tecnologico. Quindi dovremmo trasferire prodotti a basso contenuto tecnologico e forte intensità di lavoro su quei paesi e dall'altro lato dovremmo fornire a quei paesi prodotti a forte contenuto tecnologico.

All'interno di una tavola rotonda lei aveva parlato di una visione dei Fondi di Private Equity da parte delle banche come oggetto marketing, come attività accessoria. Ci può spiegare?

Questa è una osservazione della realtà delle cose: l'attività di Private Equity realizzata all’interno delle banche italiane è piccola cosa ed è abbastanza giusto che sia così nell'ambito di una banca. La banca per sua natura rappresenta un concetto di solidità, mentre il Private Equity è un'attività che deve utilizzare i soldi degli investitori istituzionale, quindi anche delle banche che cercano un elevato rendimento, ma devono essere gestiti da competenze di gestione aziendale. L’investimento di denaro all’interno di un progetto di sviluppo aziendale non ha matrice bancaria, ma manageriale: è al management che, con il supporto di consulenti specializzati, è delegato l'utilizzo del denaro per gli investimenti. In italia i soggetti che finanziano l'attività di Private Equity, oltre le banche sono pochi e piccoli per natura. Sicuramente è su questa realtà che i nostri grandi dovrebbero meditare. Gli altri paesi europei e americani vantano la presenza di importantissimi soggetti o investitori specializzati: istituti finanziari di grandi dimensioni che investono quasi esclusivamente in fondi di private equity; grandi fondi pensione, grandi compagnie di assicurazione, altre istituzioni, tra cui anche le banche nella loro diversificazione di asset.

Questa maggiore fiducia estera nel Private Equity ha anche delle ripercussioni positive nell’economia?

Certamente all’estero è presente un importante flusso di finanziamento sul settore e questo produce risultati nel bene e nel male. Evidentemente questo processo è stato uno dei motori dello sviluppo economico. In Italia le istituzioni non bancarie sono poche e non eccessivamente liquide. Una volta esistevano alcuni investitori internazionali che investivano anche su fondi italiani, ora si sono purtroppo rarefatti. Come si convincono le banche a investire nelle operazioni dei private equity nell'ambito di una raccolta? E’ difficile. Una argomentazione forte è costituita dal fatto che se noi guardiamo il totale del netto di ciascuna delle grandi banche, cioè il totale dell'attivo, e analizziamo quanto la maggiore di queste banche abbia investito in private equity, osserveremo che è una frazione modestissima. Sarebbe auspicabile la costituzione di un “circolo virtuoso” per cui se tutte le banche investissero una frazione di capitali nel settore del Private Equity, gestito da professionisti dello sviluppo aziendale, avrebbero uno strumento di ritorno come sottoscrittori. Questo gioverebbe ai fondi e agli istituti bancari senza destabilizzarne il bilancio. Anzi, le aziende sviluppate con il Private Equity diventerebbero target per il credito bancario, quindi si innescherebbe un circolo virtuoso a vantaggio di tutti.

Il panorama italiano è caratterizzato da piccole medie imprese spesso a conduzione familiare, quale può essere il ruolo e il contributo di un fondo come Centrobanca Sviluppo Impresa Sgr per garantire un maggiore sviluppo e una maggiore valorizzazione delle pmi?

E’ il cuore della nostra proposizione commerciale. Noi proponiamo alle aziende di diventare soci per realizzare insieme un progetto di sviluppo. Significa che tutti devono portare il meglio di quello che hanno. Noi abbiamo capitale, idee ed esperienza che mettiamo al supporto dei manager discutendo con loro i business plan, esprimendo i nostri dubbi in modo costruttivo. Nel confronto con il management cerchiamo di proporre nuove strade di espansione, come acquisizioni, nuovi modi di guardare il business, osserviamo con loro i metodi gestionali utilizzati, studiamo quelli più adatti, partecipaimo alla gestione di queste aziende. Con nostra soddisfazione queste imprese sono floride. Il Private Equity è una qualità che porta in azienda denaro e supporto manageriale. Questi sono gli ingredienti base per lo sviluppo aziendale.

Quali sono le ricette per far un buon passaggio generazione che spesso e volentieri è critico per l'azienda?

Le difficoltà del passaggio generazionale sono molte. Secondo me le cose da guardare sono due. Ci sono due soggetti da proteggere: uno è il patrimonio della famiglia dell'imprenditore, il valore dell'azienda che l'imprenditore ha costruito a fronte di anni di sacrifici e duro lavoro e che è corretto che la sua famiglia possa godere. Questo valore va protetto e se questa azienda non ha una buona continuità gestionale e quindi se il passaggio generazionale non viene gestito in modo corretto, questo valore scenderà. A fronte di un passaggio generazionale non correttamente gestito in 5 anni l’azienda potrebbe valere la metà. Questo è un aspetto molto importante che merita il nostro rispetto perchè è come il risparmio, cioè un valore creato che dobbiamo proteggere. Il secondo soggetto da proteggere è l'azienda che è un meccanismo che funziona sotto la guida di un motore imprenditoriale. Un cattivo passaggio generazionale costituirà un buon meccanismo con un cattivo motore. Quando ciò accade sono a rischio tutti gli asset dell’azienda: le persone che lavorano, il tessuto sociale sul quale incide, gli investimenti, gli immobili e così via. Quindi la protezione del meccanismo aziendale va assolutamente al di là del valore patrimoniale dell'azienda. Affrontare il passaggio generazionale in azienda è come affrontare il passaggio generazionale in qualsiasi altra situazione nella vita: purtroppo ci sono delle persone molto responsabili che predispongono tutto, pensando a un asse ereditario di altra natura, gli eredi non litigano e tutto è correttamente fatto. Ci sono altri soggetti che invece non interverranno per tempo lasciando che se ne occupino gli altri. Quando c'e di mezzo l'azienda questa cosa è pericolosissima. Una cosa che amo molto è dire che la vita dell'imprenditore è fatta di tre fasi: il primo momento è quello in cui prende in mano il timone dell'azienda, o la crea o la eredita, diventa l'imprenditore; il secondo momento è quello in cui sviluppa l'azienda, quindi trova il modo di farla crescere e il terzo momento della vita del vero imprenditore è quando le dà una continuità oltre la sua stessa vita. Se uno non fa questa terza parte ha mancato un terzo della sua stessa vita come imprenditore. Allora di questa terza parte bisogna occuparsene. Bisogna con grande serenità prendere in considerazione questo fatto, presto, non all'ultimo momento, è un problema che bisogna porsi.

Quali sono le caratteristiche che una Pmi dovrebbe avere per essere di interesse per i vostri investimenti?

E’ una domanda che ci siamo posti alcuni anni fa proprio per capire su quali aziende puntare. Ci sono due momenti distinti nell’investimento: l’inizio e il proseguimento e vanno tenuti ben presente nella scelta. I requisiti principali: l'azienda deve avere una dimensione non minimale (30 milioni di fatturato), deve essere oggetto di un piano di sviluppo successivo, per cui potendo scegliere è più facile che si sviluppi bene uno dei “primi della classe” piuttosto che una realtà che arranca e che quindi presenta oggettivi difetti (impianto produttivo non adeguato, posizionamento sbagliato, etc). Se si sceglie viceversa uno dei “primi della classe” si ha di fronte un'azienda con la migliore redditività nel suo settore, una quota di mercato importante, profittevole, un management team adeguato, eventualmente incrementabile in fase di realizzazione del progetto. Parzialmente perchè una sostituzione totale è un fatto estremamente pericoloso. Queste sono sostanzialmente le tre caratteristiche fondamentali. poi qualcuno deve avere in mente cosa farne in un progetto di sviluppo da condividere, tutte le altre cose le possiamo aggiungere, poi è ovvio che ci sono delle caratteristiche preferenziali.

Quali sono le vostre aspettative per l'anno a venire come track record e come nuove operazioni?

Le aspettative sono di avere un mercato ancora molto, molto limitato quindi si vedranno pochi investimenti e poche exit. C'è ancora parecchio lavoro da fare sul portafolio in un mercato che tecnicamente si definisce riflessivo, utilizzare il tempo per capire cosa di meglio si possa fare sugli investimenti già effettuati.

Editor www.finanzastraordinaria.it 05/05/10