Intervista Giampio Bracchi

Bracchi_Giampio_FILEminimizerGiampio Bracchi è professore ordinario di Ingegneria presso il Politecnico di Milano e Presidente della Fondazione Politecnico di Milano. E’ anche presidente di Banca IntesaSanpaolo Private Banking, di RDB S.p.A.- e di Milano Serravalle-Milano Tangenziali S.p.A.. Nel settore della finanza innovativa è presidente di AIFI, Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital. E’ membro del Comitato di Consultazione di Borsa Italiana S.p.A., ed è coordinatore del rapporto annuale sul Sistema Finanziario Italiano della Fondazione Rosselli. E’ stato consigliere della Presidenza del Consiglio dei Ministri e Vice-presidente di Banca Intesa.

Lei ha scritto numerosi libri sull'innovazione e sui sistemi informativi in azienda. Non possiamo pensare che il settore del Private Equity possa essere escluso dalla migrazione delle best practise verso una informatizzazione pin strutturata. Quali strumenti potrebbero innovare e migliorare le transazioni di finanza straordinaria?

Gli operatori di Private Equity hanno bisogno degli stessi strumenti informatici che utilizzano i consulenti che si occupano di fusioni e acquisizioni. Strumenti di pianificazione finanziaria, analisi dei flussi di cassa, valutazione. Infatti i fondi devono sempre verificare se a fronte di immobilizzazioni che si presentano nei bilanci delle aziende target i flussi che potranno essere generati nel futuro giustifichino l'investimento. Un altro strumento molto importante e' costituito dalla banca dati, in particolare riferendoci al settore del fondo dei fondi. Ormai da un biennio esiste un mercato secondario molto vivace in cui banche, societa' finanziarie che avevano portafogli di Private Equity investiti a livello internazionale in vari fondi si sono trovate a dover cedere il portafoglio attivando il mercato del secondario. L'uso delle banche dati in questi casi permette di valutare la quota di portafoglio e quindi anche quanto valgono le aziende che la costituiscono. Le banche dati in questo modo diventano uno strumento di vantaggio competitivo importante per i fondi dei fondi: permettono di ricostruire it patrimonio netto della quota di interesse, gli investimenti e le descrizioni degli investimenti nelle aziende target. Un altro utilizzo tipico della banca dati e' costituito dalla volonta' di investire in uno specifico settore aziendale e in questo caso per fare economia di scala e' necessario identificare quali aziende operino nel settore target, quale sia il loro andamento, come sia costituito mercato.

In America ormai 1'80% delle transazioni M&A usufruisce del sistema di virtual data room. Questo strumento può essere esportato in Italia con successo superando una ritrosia dei nostri operatori a lasciare ii classico modus operandi della data room fisica? Quali strategie si potranno attuare per facilitare l'assorbimento e la fiducia delle nuove tecnologie a favore della transazione?

Si tratta certamente di una questione di maturita' del mercato. I 3/4 delle operazioni avvengono su aziende classificabili come PMI ossia aziende fino a 250 dipendenti. Non si puo' considerare che queste aziende utilizzino da sole un sistema di vdr. A cio' va aggiunto che in Italia si fanno poche operazioni "grandi" all'anno. Data room fisica e virtual data room hanno pro e contro. Oltre ad essere lo standard prevalentemente adottotato, e quindi a non necessitare di nuovi investimenti per essere allestita, la data room fisica offre la percezione di una maggiore sicurezza, e queste sono le ragioni per cui la virtualizzazione degli archivi e' cosi' lenta. D'altra parte una data room virtuale consente un utilizzo — consultazione, archiviazione, estrazione di informazioni — decisamente piu efficiente: modalita' semplici e tempi piu rapidi. Offre inoltre la possibilita' di consultazioni anche da remoto con gli ovvi vantaggi che cio' comporta. Vero e' che, per poter mantenere in sicurezza una data room virtuale, e' necessario sostenere grandi investimenti per piattaforme adeguate. Nel complesso, data la costante spinta verso la digitalizzazione delle informazioni, anche le data room italiane si dovranno adeguare. Il punto centrale comunque e che a prescindere dalla forma assunta dalla data room, sono gli standard di sicurezza adottati a definire il livello. Il passo piu' importante per le strutture italiane, quindi, investire in sicurezza attraverso specifici risk assessment. La digitalizzazione verrà da se'.

La virtual data room potrebbe anche eliminare le barriere territoriali tra aziende dislocate sul territorio italiano nel suo complesso e operatori concentrati per la maggior parte a Milano facendo risparmiare viaggi e tempi?

La questione delle distanze e' abbastanza colmabile sul nostro territorio, geograficamente siamo abbastanza fortunati potendo essere sul posto in poco tempo. Il problema e' determinato piu' che altro dalla mentalita' e dalla dimensione delle imprese oggetto di una transazione: siamo di fronte a piccole e medie imprese e spesso un imprenditore e' restio. Anche se la presenza di un advisor che fa propria la vdr come strumento di lavoro, puo' rendere l'empasse superabile.

In tutto questo periodo di crisi non abbiamo assistito all'entrata tumultuosa sul mercato dei fondi di turnaround, si e' passati dall'avvento dei fondi locuste che divoravano il mercato a una quasi totale assenza di risk taker sul mercato di cui si lamentano gli imprenditori. Si riuscira' prima o poi a raggiungere un equilibrio?

In realta' non e' andata proprio cosi'. Gli operatori sul mercato italiano sono abbastanza numerosi e anche piuttosto diversificati sotto il profilo delle aziende su cui si focalizza l'intervento. Questa matrice differenziata e' rimasta anche a seguito della crisi anche se sicuramente i gestori sono stati piu' timidi sul fronte degli investimenti. In relazione a tale diversificazione possiamo osservare che una delle conseguenze della crisi sara' una maggiore specializzazione dei fondi che avranno una focalizzazione ad investire in un settore preciso che conoscono a fondo. Questo certamente comporterá una massimizzazione delle competenze. Purtroppo non sempre si verifica sul nostro mercato l'incontro tra domanda e offerta di dimensioni contenute cosi' come sono ancora pochi gli investitori in start up. Anche nel comparto dei turnaround in Italia non c'e' una esperienza pregressa, a causa soprattutto di un'impostazione culturale che non ha mai premiato la propensione al rischio e la "seconda possibilità" dopo il fallimento. Nonostante in Italia il segmento del turnaround si sia sviluppato piuttosto tardi e ricopra ancora oggi un ruolo di nicchia rispetto a quanto si verifica in altri contesti, nel corso degli ultimi anni il peso di queste operazioni e' comunque aumentato, fino a rappresentare nel primo semestre 2009 circa l'8% degli investimenti in capitale di rischio realizzati nel nostro Paese. In particolare, nella prima parte del 2009 le risorse investite nel segmento del turnaround sono piu' che triplicate rispetto allo stesso periodo della dimensione media delle operazioni effettuate. Sono dati da cui ci si attende una evoluzione positiva. Questo svilupppo del turnaround dara' una spinta al Private Equity nei prossimi anni perche' sara' necessario ricapitalizzare le aziende.

L'avvento dei pledge fund prima in America ed ora anche in Europa secondo lei puo' rappresentare una risposta e una sfida anche per i gestori nazionali italiani?

Puo' aiutare a ristabilire il giusto clima di fiducia tra gli operatori professionali e i risparmiatori? Lo sviluppo di Pledge (letteralmente impegno, sottoscrizione) funds nel mondo del Venture Capital fa si che si stia diffondendo una nuova "piattaforma" di investimento a differenza del tradizionale strumento "fondo". Nei pledge fund un club di investitori fornisce un impegno di sottoscrizione generico sull'ammontare di capitali che intende investire e poi decide se partecipare agli investimenti su base deal by deal piuttosto che, come avviene nella tradizionale logica del fondo, sottoscrivere una quota di capitale di un veicolo. Il caso dei pledge, poco utilizzati al momento sul mercato italiano e che in Europa si stanno diffondendo soprattutto per l'attivita' svolta dai business angels, sposta l'allocazione del rischio e le leve di discrezionalita' dal gestore, che nella logica tradizionale ha mandato per gestire i capitali nel medio lungo periodo e seleziona in autonomia le societa' target, all'investitore. Nei pledge fund l'investitore ha sicuramente piu' potere decisionale perche' decide sulla singola operazione e non si limita a condividere la strategia generale di investimento del fondo pero' potrebbe non avere la stessa competenza e la professionalita che puo' vantare un gestore di fondi di Venture Capital.

Qual e' la realta' attuale del Venture Capital?

Quando si parla di Venture Capital non ci si riferisce quasi mai al rapporto tra gestori e risparmiatori retail. I destinatari di fondi di Venture Capital sono solitamente investitori professionali che negoziano tutte le condizioni contrattuali con i gestori. E' vero che a seguito della crisi molti grandi investitori hanno maturato sfiducia nei confronti dell'investimento in Venture Capital e alcuni hanno dichiarato che non investiranno in questa tipologia nei prossimi anni. E' vero pero' anche che alcune leve della negoziazione possono essere attivate dall'investitore a suo favore, come le richieste in tema di corporate governance e di commissioni.

Negli scorsi giorni si a tenuta l'assemblea annuale dei soci Aifi, quail scenari lasciamo alle spalle nel mercato del capitale di rischio e quali sono gli orientamenti per il prossimo anno?

Lasciamo alle spalle sicuramente un anno con pochi investimenti e con operazioni di dimensioni piu' contenute rispetto al passato e un mercato in cui la raccolta di nuovi fondi stata molto difficile. Per 1' anno in corso ci sembra che l'attivita' di investimento riprenda nel secondo semestre, sicuramente per i gestori che hanno raccolto liquidita' negli anni recenti ci sara la possibilita' di acquistare aziende a prezzi piu' contenuti che in passato. Ci si attestera' su un utilizzo della leva finanziaria tipico del post-crisi e fara' la differenza, per il realizzo di buoni ritomi, la capacita' di creare valore dallo sviluppo del business dell'impresa acquisita e delle sue leve strategiche.

Quale modello di Private Equity e' uscito della crisi e si prospetta per il prossimo anno?

Si consolidera' un nuovo modello di Private Equity incentrato sulla crescita reale delle aziende, quindi piu' virtuoso. Un Private Equity che ha allungato i tempi di permanenza nell'azienda, dai canonici 4 anni agli attuali 5. Inoltre si assistera' ad una specializzazione settoriale dell'investimento in aziende target per aumentare le potenzialita di rendimento.

09/02/2010 Editorfinanzastraordinaria.it 2010