Intervista Adriano de Maio

demaioAdriano De Maio - Presidente Irer Finanzastraordinaria.it incontra Adriano de Maio nato a Biella, laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano per cui è anche diventato docente, rettore e fondatore del Mip. Nel 2004 ha ricevuto la laurea ad honorem in Ingegneria dall’Ecole Centrale di Parigi. E’ Sottosegretario alla Presidenza della Regione Lombardia con delega per l’Alta Formazione, Ricerca e Innovazione. E’ presidente dell’Irer, Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia. Oltre a rivestire cariche di prestigio in diverse associazioni che raggruppano università di eccellenza a livello internazionale (Board di Uniteci, Presidenza di Time, consigliere di amministrazione della Ecole Centrale de Paris), è fortemente attivo nella promozione dell’attività di ricerca come nel caso del CEN [ndr. centro europeo nano medicina].

Lei ha affermato “le nuove idee costituiscono una condizione solo necessaria e non sufficiente per la creazione di nuove imprese”. Quali sono le chiavi per lo sviluppo di start up di impresa che sopravvivano?

Un'impresa necessita di un business plan ben elaborato ed equilibrato, una analisi delle prospettive di mercato e del suo sviluppo, delle risorse finanziarie necessarie per il suo funzionamento. Bisogna considerare tuttavia che nella realtà dei fatti tutte queste condizioni comportano delle criticità. Generalmente il promotore e ideatore della start up non ha capacità di sviluppare il business plan completo di tutti gli studi di fattibilità necessari perchè l'impresa si sviluppi e in alcuni casi è restio a chiedere all'esterno un aiuto nella realizzazione di queste analisi prodromiche. In alcuni casi poi avviene una sottovalutazione del patrimonio finanziario necessario per l'avvio dell'azienda, sia dal lato imprenditore (chiedo meno per ottenere più facilmente) sia dal lato investitore (investo poco sullo sviluppo della start up). A ciò va aggiunta una comune ritrosia da parte dell'ideatore /imprenditore a far partecipare al capitale dell'azienda un investitore in equity.

Come reagire a queste difficoltà e in particolare alla titubanza nell'azione del Venture Capital?

E' necessario sviluppare una “cultura del rischio” e dell'innovazione grazie alla quale incentivare lo spirito d'iniziativa imprenditoriale. Ma lo sforzo accademico da solo non può bastare, è necessario coniugare uno sforzo anche statale creando una “controtendenza” rispetto a quanto avviene attualmente in Italia: la pubblica amministrazione deve diventare promotrice di innovazione in quanto acquirente di innovazione.

La Regione Lombardia ha realizzato importanti bandi a sostegno delle imprese e in particolare di quelle ad alta innovazione. Altrettanto hanno fatto alcuni istituzionali che abbiamo avuto modo di incontrare come Finlombarda. Quale fotografia emerge della azione pubblica e dei suoi risultati a favore dello sviluppo delle PMI?

I fondi promossi da Finlombarda che lei ha citato hanno avuto successo. Il Fondo Seed ad esempio ha ottenuto riscontri positivi grazie ad una innovatività procedurale: il percorso per la presentazione delle domande è semplice ma completo, il percorso di valutazione snello. Fondo Next è un buon prodotto e se, come mi auguro, venisse rifinanziato occorrerà rivederne l'equilibrio tra investimenti diretti e indiretti. A queste iniziative si aggiungono i numerosi interventi finanziati dalla Regione a sostegno dell'attività di impresa e di start up di impresa.

La Lombardia è la “locomotiva” d’Italia. Quale ruolo giocano le università e la cultura accademica per sostenere in maniera sempre più vigorosa una formazione volta al “saper fare”?

In un convegno svoltosi in questi giorni mi è stata posta la domanda: “imprenditori si nasce o si diventa?”. Ad essa ho risposto con una domanda: “poeti si nasce o si diventa?”. Il cursus studiorum può insegnare la struttura, il funzionamento e le necessità dell'impresa ma se una persona non è intimamente portata al rischio è difficile far emergere questa peculiarità solo ed esclusivamente con la formazione.

In particolare relativamente al tema del trasferimento tecnologico quale pensa possano essere gli strumenti più efficaci stante la perdurante incomunicabilità tra accademia e impresa?

Il concetto di trasferimento tecnologico è un termine che non amo. Quello che dobbiamo fare è passare dall’idea al prodotto, far nascere una terza cosa da due cose distinte. Il segreto per un prodotto eccelso è un lavoro congiunto, impresa e accademia devono saper comunicare tra loro. Da questo punto di vista Giulio Natta è stato un maestro straordinario: ha creato un laboratorio al politecnico e uno a Montecatini ma le due sedi lavorarono fin da subito in maniera congiunta. Oggi purtroppo realizziamo uffici specifici per il trasferimento tecnologico, formazione sul settore ma in realtà dovremmo più semplicemente riflettere su come lavorare unitamente. Alcune università hanno sviluppato programmi importanti a sostegno delle iniziative imprenditoriali (ricordiamo per esempio l’acceleratore di impresa del Politecnico).

Quali altre iniziative si potrebbero ideare per formare “sul campo” gli imprenditori e affiancarli?

L’acceleratore d’impresa di cui sono stato tra i fondatori è nato con lo scopo di creare un ambiente favorevole a partire dalla strutturazione di spazi disponibili per le neo-nate imprese e nello stesso tempo spazi condivisi con altri neo-imprenditori. Il fatto che aziende così diverse tra loro, appartenenti a campi anche molto distanti avessero la possibilità di attecchire in un ambiente comune è di per sé una potenzialità poiché contribuisce ad aumentare lo scambio di idee e il confronto per una reciproca crescita. Questo concetto è anche connesso al nome che è stato “ingegneristicamente” scelto proprio dal termine accelerare, preferito all’idea più fragile di incubatore.

Quali miglioramenti si possono ipotizzare per sostenere ancora più concretamente le start up soprattutto nel settore dell’innovazione?

La base per lo sviluppo è la “comunicazione”, anche tra aree geograficamente lontane ma che possono interagendo contribuire ad uno sviluppo esponenziale del progetto che rappresenta il loro core business. In primis una condivisione di esperienze dunque, secondariamente una strategia delle priorità. Bisogna sapere dire di no e avere le idee chiare sul da farsi. Posso dare una risposta partendo dalla mia esperienza concreta della creazione del CEN [ndr. centro europeo nano medicina], che si pone obiettivi importanti un progetto coordinato da Francesco Stellaci che si pone obiettivi importanti attraverso l'utilizzo di nuovi materiali (nanostrutturati) e nuove tecnologie per la diagnosi e la terapia in particolare nei campi dell'oncologia, della neurologia e della cardiologia. Per raggiungere traguardi così ambiziosi sono stati coinvolti 10 prestigiosi istituti di ricerca pubblici e privati oltre alla Regione Lombardia che ha sostenuto finanziariamente il progetto. Il CEN è nato lo scorso autunno e uno dei primi filoni sviluppati è costituito dal continous drug delivery. Attraverso questa ricerca avremo la possibilità di trasferire le cure che necessitano di somministrazione continua dall’ospedale a casa grazie a strumenti specifici che rilasciano nell’organismo le dosi dei medicinali in modo autonomo e costante. Un progetto che rappresenta anche un rilancio delle risorse di ricerca italiane, contro la cosiddetta fuga dei cervelli. E’ una nascita dell’economia della salute in grado di favorire un ritorno economico considerevole. Inoltre permette al nostro paese di tornare in prima fila nell’ambito della ricerca. La formazione in Italia è ad ampio spettro, la nostra bravura è determinata dall’interdisciplinarietà e dalla gestione dei sistemi complessi, non dalla competenza settoriale. Proprio attraverso il CEN è stato attratto in Italia, come primo caso, il professor Stellacci, nostro laureato in ingegneria dei materiali, dal MIT.

Traendo spunto dal concetto appena toccato di formazione, vorrei chiederle sia per il suo ruolo di docente-formatore che per la sua esperienza, quali consigli si sentirebbe di dare ai giovani perché possano realizzare i loro progetti?

Essere curiosi, farsi sempre delle domande. Assumersi responsabilità: oggi si parla molto del concetto di “merito” ma per me questa parola significa innanzitutto decidere tra alternative e prendersi carico della scelta. Infine non accettare mai “ipse dixit”, porsi sempre dei dubbi. La nostra società si sta fondando sempre più sull’apparenza, ma è necessario che i giovani per realizzarsi trovino la forza di reagire, di proporre il cambiamento e di andare oltre il lato superficiale delle cose.

Rimanendo in tema di attrattività, Milano e il territorio lombardo si preparano a diventare un polo attrattivo per Expò. Uno dei nodi più importanti da sciogliere è quello della mobilità, punto che è stato evidenziato anche nella pubblicazione Società, governo e sviluppo del sistema lombardo. Quali possono essere le pianificazioni più adeguate per rispondere a un tema così delicato e vitale per la città? Irer ha pensato a ricerche e approfondimenti che possano aiutare una riflessione e azione in tal senso?

L’Italia sconta una politica miope e devastante nell’ambito dei trasporti. Irer ha organizzato a questo proposito un convegno dal titolo “Il Gottardo c’e’. E noi cosa facciamo”. Proprio su questa tematica proponendo in particolare una riflessione sulla mancanza di uno sviluppo di assi di logistica tra cui il corridoio Genova- nord Europa. La mobilità sulle grandi arterie è al collasso mentre quella più specifica, destinata a servire l’area di Milano e hinterland può avere uno sbocco dalla saturazione se saranno realizzate nuove metropolitane. Il problema riguarda non solo i visitatori di Expò o i pendolari che quotidianamente si muovono da e per Milano, ma è più ampio. Va considerato anche il traffico merci che si snoda sull’asse di Milano come punto di passaggio obbligato per raggiungere i grandi centri del nord a partire dal meridione del paese. Il futuro dei trasporti dovrà prendere due vie: marittima e ferroviaria. La riflessione è pertanto volta a rafforzare il trasporto via ferro, dimenticato nei piani di sviluppo del nostro paese da tempo e nel potenziamento delle vie navali, partendo dalla considerazione che ad oggi l’unico porto nel Mediterraneo a permettere l’attracco di navi di grandi tonnellate è Genova. Resta il fatto che il mio sogno nel cassetto fin da bambino è stato quello di vedere rinascere i navigli di Milano riaprendo i corsi d’acqua che storicamente attraversavano la città.

Editor www.finanzastraordinaria.it 07/06/2010