Dalle corporazioni agli Ordini professionali. E il nuovo ordine nel dis-ordine.

Arti_e_mestieriSe volessimo utilizzare un termine latino dovremmo iniziare questo articolo con il termine “excursus” o se preferite maggiore attinenza con il mondo anglosassone, flash back.

Eccoci dunque calati, a ritroso nel tempo nell’atmosfera così complessa quanto affascinante del mondo medioevale, ormai definitivamente liberato e sdoganato dai vecchi cliques di “media aetas”, età di mezzo, equivalente a ciò che dantescamente potremmo raffigurare con un “sanza ‘nfamia e sanza lode”. Ma visto che ora il Medioevo assurge finalmente alla sua riconoscibilità storica e fuoriesce dal girone degli ignavi (per inciso, non è forse meglio schierarsi piuttosto che sopravvivere come i condannati di questa cerchia ruotando per l’eternità attorno ad una insegna?) abbiamo riconsegnato a piene mani il suo straordinario patrimonio di cambiamenti e innovazioni.

E’ nel tardo medioevo, a partire dal XII secolo, che vedono la luce le prime corporazioni delle arti e mestieri, progenie di quelli che modernamente conosciamo come ordini professionali. Una linfa che dura da un tempo quasi infinito e che attinge ad una radice ancora più remota. Già in epoca romana infatti sussistevano testimonianze di organizzazioni di mestieri. Addirittura nella città di Ostia antica, dietro il teatro augusteo, era ubicata una piazza delle Corporazioni costituita da un porticato (perimetrale ad un tempio), che ospitava numerosi ambienti alle spalle delle colonne, destinati alle diverse associazioni di mestiere. Ogni corporazione recava la propria effige sulla pavimentazione mosaicata dell’area di sua competenza.

L’esistenza di queste testimonianze ci dimostra una tendenza storica: la necessità da parte del professionista di trovare una forma associativa in cui riconoscersi e riunirsi.

Sia che fossero le Guildes francesi, che le Guilds inglesi, le Zunften tedesche o le Universitas o Collegia latini, tutte queste associazioni rispondevano ad un bisogno comune, sovranazionale che prescinde dunque dalla cultura territoriale ma che evidentemente si riferisce ad una esigenza “in nuce” insita nell’essenza dell’uomo, sia esso professionista che essere umano.

Letterariamente potremmo citare la famosa frase “nessun uomo è un’isola” di John Donne per spiegare questo principio che dunque esula dalla componente esclusivamente lavorativa ma si insinua in un ben più grande sistema che è il funzionamento dell’uomo in quanto essere sociale.

C’e’ un’altra riflessione interessante sul tema. Torniamo con la mente all’epoca antica, ora ci troviamo nel III secolo sotto l’impero di Diocleziano. Egli rese addirittura obbligatoria non solo la corporazione operaia ed artigiana ma anche l’ereditarietà della stessa. Dobbiamo a questo punto porci una domanda. Come mai addirittura ereditaria? La risposta va ricercata nel profondo tessuto di trasformazioni che furono determinate da quel momento storico preciso. Una crisi economica, urbana, militare e soprattutto sociale. Infatti alle tre classi della tradizione (senatori, cavalieri e plebei) si erano sostituite quella degli “honestiores” (senatori e cavalieri) e quella degli “humiliores” (plebei: tra cui artigiani e commercianti). Ovviamente la classe dei “più umili” era destinata a soffrire le maggiori difficoltà economiche ma non solo. Fatto ben più rilevante che si venne consolidando in quel periodo fu la presenza di disuguaglianze di trattamento sempre più profonde che ebbero, a differenza di quanto avveniva in precedenza, un consolidamento giuridico.

La mossa dell’imperatore, rendendo ereditarie le corporazioni fu dunque duplice: tentativo di mantenere un controllo sulla classe degli “humiliores” e soprattutto il consolidamento della assoluta mancanza della mobilità sociale. Chi fosse nato in quella corporazione, mai avrebbe potuto uscirne, migliorando la propria situazione.

Una corporazione “utilizzata” a scopo di controllo, si contrappone nettamente alla corporazione “nata” per tutelare i propri associati, riconoscendo tra gli altri il principio di mutua assistenza, e nata da una esigenza come abbiamo visto intrinseca all’essenza dell’uomo prima ancora che del lavoratore.

Un fine nobile si contrappone ad un “secondo fine” drammaticamente condannante.Arti

Nella considerazione della realtà attuale, ci troviamo di fronte ad un periodo storico particolarmente difficile, caratterizzato da una crisi economica che, seppur non paragonabile culturalmente a quella del III secolo, certamente porterà e ha portato a delle situazioni di mutamento sociale, finanziario e umano.

Di fronte alla sfida di azione (crisi) reazione (soluzione) oggi le nostre corporazioni e i loro associati, sono chiamati ad uno spazio di riflessione. Necessario. Dovuto.

Di fatto la moderna borghesia è rappresentata da professionisti appartenenti ai vari ordini nazionali. Oggi stiamo assistendo a una decrescita del potere economico di questa classe, coerente con l’evoluzione a forbice dell’intero assetto societario del paese: ricchi che divengono sempre più ricchi, benestanti che hanno più difficoltà rispetto al passato.

Quale può essere la mission degli ordini in questo delicato momento?

“A voi posteri l’ardua sentenza”. O forse a noi contemporanei la soluzione. Ordine, che come etimologicamente inteso sarebbe “maniera di andare, di procedere” [Francesco Bonomi, Vocabolario etimologico della lingua italiana] può ricondurre all’ordine.

Siamo dinanzi ad una situazione di smarrimento generale. Davanti al dis-ordine, occorre reagire con ordine. Penso che lo sforzo non sia solo da richiedere agli Ordini professionali, che offrono la tutela della professione oltre che una continuità formativa e forme di vita associativa, ma anche e soprattutto agli stessi associati che di fatto costituiscono la linfa dell’Ordine medesimo.

La presenza di un Ordine riconosciuto è una possibilità, un’opportunità. Recuperando le ragioni che determinano la vita associativa, forse sarebbe più auspicabile rendere anche vitale l’associazionismo. Più che barricarsi dietro la ferrea e strenua difesa del proprio cliente, che peraltro dovrebbe essere tutelata anche dalla deontologia professionale, sarebbe interessante ripristinare una qualità della vita associativa: non prendere solo dai rispettivi ordini di appartenenza formazione e opportunità, non pretendere soluzioni dalla propria “corporazione” professionale, ma vivere l’associazionismo in modo vero.

La comunicazione e il network, la possibilità di creare nuove interscambiabilità tra le diverse competenze professionali. Elementi che spesso i professionisti rifuggono per paura di perdere il loro posto nel castello. Ma chi rimane nel “cassero” diventa un’isola.

Editor